«Tiri la porta e delle chiavi non sai che fare: chiudere? A che serve? Domani stesso nelle tue stanze entrerà gente nuova, che non sa nulla della vita vissuta là dentro. Ti porti dietro quello che puoi, poche cose, ma ciò che non potrai portare con te, che mai più riavrai, è la scuola che frequentavi, le voci degli amici, un amore che magari sbocciava, il negozio all’angolo, l’orto di casa, i volti noti, il tuo mare, il campanile…». Poche parole possono spiegare il senso di appartenenza a un paese, una storia, una comunità quanto l’orazione di Lucia Bellaspiga letta anni fa alla Camera nella Giornata del Ricordo: «La mia prima volta a Pola, da bambina, è il ricordo di mia madre che piange aggrappata a un cancello. (…) Al di là di quel cancello una grande casa che doveva esser stata molto bella, ma che il tempo aveva diroccato. (…) Tutto era rimasto come allora. La finestra si aprì e una donna gentile, con accento straniero, capì immediatamente: “Vuole entrare?”, chiese a mia madre. Solo adesso comprendo la tempesta di sentimenti che doveva agitare il suo cuore mentre varcava quella soglia e rivedeva la sua casa, la cucina dove era risuonata la voce di mia nonna, le camere in cui aveva giocato con i fratelli».
Può anche darsi che il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani, chiudendo il suo intervento alle Foibe di Basovizza («Viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia italiana, viva gli esuli italiani…») abbia usato toni poco diplomatici. Può darsi. Lui stesso, davanti alle ire slave, si è affrettato a precisare: «Sono stato interpretato male. Nessuna rivendicazione territoriale». Ovvio.
Anche sloveni e croati, però, non possono reagire come si trattasse d’un sanguinoso insulto davanti a ogni palpito di malinconia degli italiani per quelle terre che per secoli, quali che fossero i confini geografici, sono state istro-venete. Non sono rivendicazioni revansciste: sono sospiri di amore perduto. Nessuno vagheggia che Venezia si riprenda le Bocche di Cattaro. Ma nessuno può strappare dai ricordi degli esuli il diritto di emozionarsi davanti al Giuramento di Perasto letto da Giuseppe Viscovich quel 23 agosto 1797 in cui, dopo la caduta della Repubblica, ammainò dopo 377 anni il gonfalone: Tu con noi, noi con te. «Ti co nu, nu co Ti».